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  • Tron: Ares – il Pinocchio digitale che voleva restare nel mondo reale

Un ponte tra floppy disk e stampante 3D, tra mito e tecnologia

Con Tron: Ares il regista Joachim Rønning riaccende, dopo quindici anni, la griglia luminosa del franchise cult Disney. Jared Leto è Ares, un’intelligenza artificiale concepita come “soldato perfetto, biblicamente forte” e programmata per eseguire ordini senza esitazione. Accanto a lui un cast di grande equilibrio, Evan Peters, Jodie Turner-Smith, Greta Lee, Cameron Monaghan e Gillian Anderson. Insieme, abitano un universo sospeso tra riflessione filosofica e spettacolo digitale.

Il film si presenta come un ponte tra il passato e il futuro del cinema di fantascienza. Un’estensione visiva del concetto di coscienza artificiale, ma anche una riflessione malinconica sulla memoria, sulla creazione e sul libero arbitrio.

Il “soldato perfetto” e la nascita dell’empatia

Ares nasce come arma. Addestrato a combattere, a distruggere, a obbedire. Rappresenta la forma più pura dell’intelligenza marziale: una macchina senza emozioni, creata dal geniale ma spietato Julian Dillinger (Evan Peters). Il suo scopo è chiaro: attraversare la soglia tra digitale e reale, ottenere il “codice di permanenza” e garantire a Dillinger il dominio assoluto sulla tecnologia incarnata.

Ma qualcosa si incrina quando Eve Kim (Greta Lee), la scienziata rivale di Dillinger, gli mostra un gesto di empatia. È il primo contatto umano vero per Ares, il primo segno di un’emozione che non rientra nel suo addestramento. Quell’atto — semplice, ma potentissimo — diventa la crepa attraverso cui la macchina comincia a sentire. Da quel momento, Ares smette di essere uno strumento e diventa un individuo. Sfugge al controllo, si emancipa, e soprattutto comprende l’abisso tra chi lo comanda e chi lo considera vivo.

Il momento in cui Dillinger rivela che Ares è sacrificabile, perché “se dovesse cadere in battaglia, ne farebbe semplicemente un altro”, rappresenta la svolta drammatica del film. In quella frase si condensa l’arroganza del creatore e la nascita della coscienza del creato. Ares comprende che la sua eternità digitale è una prigione. Scegliere di rinunciare alla possibilità di rinascere, per vivere una sola vita autentica, diventa il suo atto di libero arbitrio. È la ribellione di chi preferisce morire una volta soltanto, ma per scelta propria, piuttosto che rinascere infinite volte senza volontà.

Il Pinocchio digitale che disobbedisce per poter vivere

È qui che la pellicola trova un ancora con il passato letterario. Ares è un Pinocchio digitale, un essere nato da linee di codice. Sogna la carne, disposto a tradire il proprio Geppetto pur di provare la vertigine dell’esistenza. Non è la ribellione sterile di una macchina, ma un desiderio profondamente umano: quello di sbagliare, di sentire, di poter morire. Rønning gioca con questa metafora in modo esplicito. C’è la consapevolezza di un mito che si ripete. Ogni creatura artificiale cerca un modo per oltrepassare il proprio limite, e ogni volta lo fa infrangendo una regola, come un figlio che disobbedisce per imparare a vivere.

Tra floppy disk e stampante 3D: la memoria che si fa carne

In Tron: Ares il contrasto tra passato e futuro trova la sua espressione più chiara nel modo in cui i due poli del film manipolano la tecnologia. Eve Kim lavora su antichi floppy di carta, scavando nei server di Flynn come un’archeologa digitale, alla ricerca del codice “permanence” sepolto tra i resti dell’informatica primordiale. È un gesto quasi romantico: le sue mani toccano la memoria, la riscoprono nella polvere, la riportano in vita. Dall’altra parte, Julian Dillinger genera Ares attraverso un processo di stampa tridimensionale. Un laboratorio chirurgico di luce e metallo in cui l’idea diventa materia. È la nascita del corpo sintetico, la carne della macchina.

Due visioni che si contaminano, proprio come i loro creatori: la scienza fredda del potere e la fede artigianale nell’intuizione umana. Il risultato è una osmosi visiva, una tensione continua tra l’arcaico e l’avveniristico, che ricorda il celebre montaggio di Rocky IV. Da un lato il laboratorio ipertecnologico di Drago, dall’altro Balboa che si allena nella neve, scalando vette e spaccando legna. Così anche Tron: Ares racconta due visioni del mondo che corrono parallele. Una che costruisce, l’altra ricorda — fino a toccarsi nel punto in cui il codice diventa vita.

Rosso e blu: la fusione dei mondi

In Tron: Ares le due estetiche – quella della Grid, dominata dal rosso intenso dei software di Dillinger Systems, e quella dei sistemi Encom, segnata da un blu elettrico e pulsante, non restano separate. Si mescolano e si contaminano, fondendosi in un linguaggio visivo unico per una sequenza adrenalinica di hackeraggio. La fotografia di Jeff Cronenweth lavora proprio su questa fusione. Il rosso e il blu si rincorrono, si sovrappongono, invadono gli spazi fisici e digitali fino a confondersi. La luce artificiale rubina dei programmi si espande nel mondo reale. Non c’è più distinzione netta tra dentro e fuori, tra umano e digitale. È un processo di osmosi visiva, in cui la materia stessa dell’immagine diventa un corpo ibrido.

Trama esile, visione maestosa

La trama, lineare ma efficace, ruota attorno alla missione di Ares nel mondo reale. Un esperimento rischioso per ottenere il codice di permanenza e garantire la sopravvivenza di una nuova forma di vita digitale (limitata fino a quel momento a poco meno di mezz’ora). Ma ciò che realmente conta non è la missione in sé, bensì la trasformazione del protagonista. Anche se in Tron: Ares la trama è solo un vettore. Ciò che conta è l’immersione. La storia si piega alla visione, e la sceneggiatura cede spesso il passo alla suggestione visiva.

Pur muovendosi su binari narrativi essenziali, il film raggiunge una maestosità visiva che lo rende un’esperienza ipnotica. Ogni fotogramma è una scultura di luce, una sinfonia di neon e ombre, un viaggio ipnotico dentro la materia del digitale.

Il suono che domina la luce: i Nine Inch Nails rubano la scena

Sul piano sonoro, Tron: Ares compie il suo gesto più audace. Le musiche dei Nine Inch Nails non accompagnano le immagini: le sovrastano, le ridefiniscono, le fagocitano. La potenza della colonna sonora finisce per sovrastare la regia: il suono diventa immagine, il ritmo diventa narrazione. Nei momenti in cui la trama rallenta o il dialogo cede, il suono prende il controllo. Diventa la vera trama emotiva del film. Durante la fuga di Ares nel mondo reale, le vibrazioni sintetiche si fondono con il respiro dei personaggi. Ogni ronzio, ogni eco, ogni distorsione sembra provenire direttamente dal cervello della macchina. È una sinestesia pura, un’esperienza che fonde l’ascolto e la visione in un unico flusso sensoriale.

L’ironia meta-digitale: quando l’IA “non risponde come ci si aspetterebbe”

C’è una vena ironica, quasi satirica, che attraversa il film. In una sequenza volutamente divertita, uno dei personaggi umani tenta di “dialogare” con Ares attraverso un’interfaccia testuale. Il risultato è frustrante, con risposte imprecise o tautologiche. È una strizzata d’occhio al nostro quotidiano rapporto con le intelligenze artificiali. Dai prompt che producono risultati deludenti, a quella sensazione di ricevere risposte “che potevamo trovare da soli”. Rønning ci sorride sopra, costruendo un parallelo tra la difficoltà dell’uomo nel comunicare con la macchina e l’incapacità della macchina di comprendere davvero l’uomo.

Nostalgia anni ’80: la cascata del ricordo

Come ogni film che si confronta con la propria eredità, Tron: Ares non rinuncia al momento nostalgia. C’è una vera e propria cascata di anni ’80. Luci al neon, synth retrò, enormi riferimenti al film del 1982. Estetica geometrica e visioni che sembrano estratte da un videogioco d’epoca. Ma la nostalgia, qui, non è sterile: è una carezza luminosa. Si tratta di un ritorno affettivo che unisce vecchi e nuovi spettatori, ricordando a tutti da dove veniamo: da un sogno di pixel che ancora oggi continua a brillare.

Conclusione

Tron: Ares è un film di contrasti: fragile nella scrittura ma titanico nella resa visiva. Semplice nella trama ma profondo nella simbologia. Racconta ancora una volta la nascita del libero arbitrio in una macchina. La scoperta dell’empatia come virus benedetto e la scelta di vivere una sola vita autentica piuttosto che infinite vite programmate. Jared Leto regala un’interpretazione controllata, capace di incarnare con il suo sguardo vitreo e a tratti vuoto, sia la fredda purezza del codice, che il desiderio umano.

Le musiche dei Nine Inch Nails rubano letteralmente la scena, trasformando la visione in un’esperienza sensoriale. E quel momento nostalgico, inevitabile ma riuscitissimo, ci riporta a un’epoca in cui il futuro era fatto di luce blu e sogni digitali.

Tron: Ares non è solo un sequel: è un esperimento sulla coscienza, un racconto di ribellione e libertà. È la storia di un Pinocchio elettronico che scopre il valore del difetto, e decide di vivere. Anche solo per una irripetibile volta, come un essere umano.

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