Un noir queer con grandi promesse ma poca sostanza
Honey Don’t! si presenta come un neo-noir con forte carica visiva. Si percepisce subito l’intenzione di Ethan Coen (in coppia con Tricia Cooke) di voler miscelare genere, sessualità e violenza. Il film mostra momenti riusciti di messa in scena: scene sessuali non edulcorate, visioni pulp, ambientazioni audaci. Tuttavia, la pellicola fatica a trasformare questi slanci in un racconto coeso. Spesso, molti personaggi e linee narrative si affacciano senza trovare un senso chiaro nel quadro complessivo.
Ambizione tematica e disordine narrativo
Nel soggetto e nella sceneggiatura emergono spunti interessanti: il potere religiosamente corrotto nelle chiese, il conflitto tra aspirazioni personali e violenza sistemica, l’identità sessuale che irrompe nel noir classico. Tuttavia, ben presto la molteplicità di personaggi e trame – alcuni più funzionali, altri meno – crea dispersione. La parte centrale perde ritmo e chiarezza mentre il finale giunge con salti tonali che stentano a convincere. La messa in scena, che poteva essere un pilastro forte, appare spesso più solida delle basi narrative che avrebbe dovuto sorreggere.
Cast e personaggi: interpretazioni tra luci e ombre
Margaret Qualley è la protagonista centrale, Honey O’Donahue, detective che cerca di ricomporre un caso legato a chiesa e misteri. Nel suo personaggio si percepisce forza e vulnerabilità, ma non sempre la sceneggiatura le fornisce strumenti per crescere pienamente. Aubrey Plaza interpreta MG, agente polizia con relazioni controverse. Il suo ruolo della Plaza è carico di potenziale ma talvolta appare costruito per estetica più che per profondità. Chris Evans nei panni del reverendo Drew Devlin incarna un peccatore autoritario. Il villain di Evans risulta a tratti troppo esplicito, privo di sfumature. I personaggi secondari, invece, spesso restano figure decorative. Figure che volte introducono elementi intriganti, ma raramente sono sufficientemente sviluppati per avere peso.
Regia ed estetica: virtuosismi che non colmano il vuoto narrativo
Ethan Coen si diverte nella regia. L’uso del formato, la composizione visiva, i richiami noir e pulp sono evidenti e spesso affascinanti. Le luci, le inquadrature audaci e le scene sessuali non mascherate dimostrano che il regista vuole spingersi verso una registrazione più diretta, meno velata. Tuttavia la coerenza visiva non è sufficiente a sostenere il peso di un racconto debole e incerto. Quando il film devia verso l’assurdo o il grottesco, lo stile non riesce più a bilanciare il tono, e il risultato è un disorientamento che mette in luce l’instabilità dell’intero impianto narrativo.
Pregi notevoli e limiti che pesano
Tra gli aspetti meritevoli, Honey Don’t! mette in scena momenti provocatori che non si accontentano del già visto: scene sessuali esplicite senza romanticismo, collisioni violente, dialoghi pungenti. Ci sono momenti in cui la componente queer e l’irriverenza funzionano davvero, e in quei lampi si intravede cosa avrebbe potuto essere. Tuttavia il disordine della struttura, il numero eccessivo di personaggi poco funzionali e il finale che sembra volare via senza radicarsi nel resto del film pesano sulla resa. L’operazione rischia di risultare più esercizio di stile che opera compiuta.
Conclusione: tra potenziale mancato e frammenti di bellezza
Honey Don’t! è un film che ambisce molto e che riesce a esibire momenti di virtuosismo visivo e di carica tematica. Tuttavia l’impressione che rimane è quella di un’occasione in parte sprecata: la somma delle componenti — cast numeroso, temi forti, regia audace — non genera sempre un’unità. Ci sono sequenze affascinanti, battute incisive, scelte estetiche coraggiose, ma mancano la coesione e lo sviluppo necessari a farle emergere come opera completa. In definitiva, rimane un film deludente rispetto alle aspirazioni, ma non privo di elementi interessanti che meritano attenzione.


